La Compagnia Abbondanza/Bertoni perfora l’acme intollerabile del ghiaccio umano verso gli esclusi con l’ardore rovente della pietas totale
di Leonardo Filaseta
Con la terza fase del ciclo Ho male all’altro, dopo Alcesti e Medea, Michele Abbondanza e Antonella Bertoni con altri sei compagni arrivano a un livello di spettacolo di teatro-danza altissimo, denso, rivoluzionario, storico. Lo si è visto al CRT dal 4 al 6/11 e si intitola Polis: una polis arcaica alle origini dell’uomo e, nel contempo, comunità odierna e denudata da fine del mondo, escatologica. Al centro della nuda scena c’è uno stretto capanno d’assi ligneo di m 3 x 1 x 2. Dal buio totale per estenuanti minuti avanzano braccia, poi sempre lentissimamente larve umane in poco lume: sette umanoidi emergono dal brodo primordiale. A sinistra in primo piano come spazio irradiante la consolle del coreografo–regista Abbondanza, addetto alla musica e perno incardinante del collettivo. I sette in costume maschile atemporale – sotto il quale, scopriremo, ci sono anche tre donne – cercano, brancolando a tentacoli terribilmente titubanti e febbrili e abbrancando spazio e incrociandosi meccanicamente, un ubi consistam. E hanno bisogno di lui, Michele, che ogni tanto corregge un piede mal posto di uno irrigidito in modo obliquo o rende contiguo un altro al vicino per annodare il gruppo in connessione armonica (o minore asperità). Nella non-narratività di uno stile di danza di punta di avanguardia (almeno in Italia) in cui il corpo è usato totalmente come strumento espressivo – “luogo di rappresentazioni, credenze e sistemi simbolici” (Corbin) -, senz’accorgercene siamo catapultati in una temperie d’altissima tensione visionaria, onirica. È un “transfert” impegnativo in un altro pianeta – coinvolgente in toto attenzione intellettiva ed empito emotivo – dove questi quasi-umani arrancano quali ragni o scimmioni, tastano l’aria, tentano di raddrizzare la struttura scheletrica, protendono la testa in tentativi di urlo-mugghio invocativi, si uniscono due o tre in arrotolamenti e divincolamenti, in sopraffazioni e giochi. Michele interviene e l’energica potenziante musica di Albinoni solennizza l’aspetto rituale in dolente malinconia e intride noi tutti in un pathos metafisico. Stacca velocemente col buio le scene e dirige con ipnotica decisione da vero sciamano nel faticoso processo umano: verso la polis dove coesistere. Si delinea l’itinerario di questi solitari sette nomadi dell’ecumene. “Ci muoviamo come se gli altri non esistessero. Non riusciamo a prendere sul serio nessuna resurrezione”, commenta Michele con verbo del filosofo Michelstaedter. I tentativi di polis sono resi coreograficamente dal frequente bloccarsi in manichini d’ognuno, divenuti anestetizzati (spostati, riequilibrati e svegliati dall’angelo “Michele”). Tentativi espressi sia nella ricerca fremente dell’altro (toccato, palpato) e sia nell’uso più intenso del capanno-casa: si entra nel luogo invischiante-attraente perché ci si illude di costruire comunicazione - e si esce accostati, contigui o per mano. Fino a che il capanno non basta (per sovraffollamento?) , viene scardinato e ognuno si ancora alle assi, quali isole di momentanea dimora. Approdano tutti insieme infine esausti e prostrati in una isola-salvezza delle assi – scialuppa della fine del mondo? – mentre una volteggia fremente in un vortice di libertà. La musica asse portante della pièce coreutica, più che interpretata mirabilmente incorporata e plasmata dai corpi-segni, si scioglie in momenti di struggente lirismo (anche Chopin) o sottolinea con il dies irae di Verdi i picchi di pathos quali la formazione della croce con due assi sul corpo trascinati al proprio calvario o il quadro frontale di insieme accostati denudati e umiliati come in un lager (sul Golgota in attesa di crocifissione?). Abbiamo annotato solo flash di impressioni di un rituale non riassumibile solo evocativo. Non per tutti, non per gli amanti dello spettacolo evasivo o per chi è attaccato alla sedia del proprio credo. È per chi, sensibile allo sbilanciamento planetario e ai dardi di annientamento umano dei nostri dì, consapevole della propria impotenza, è disposto a lasciarsi trapanare dalle lance di invocazione di questi naufraghi, a flettersi e mettersi in gioco “ Ci cerchiamo come particelle capaci di permeare lo spazio della nostra micidiale nullità” è il lapidario saettare dell’amato filosofo. È vivificante, fecondante lasciarsi inondare. Si arriva così ad assaporare l’incomparabile dolcezza che inumidisce e liquefa ogni nostra cellula – mista a commosso pianto nel vedere i sette annodarsi tutti: chi con le braccia, chi con il tronco, chi con le gambe, e addirittura cranio a cranio, senza fermarsi. Accostamento, meglio unità a catena che esala un estatico rapimento quale irresistibile pulsione cosmica amorosa. Polis è l’approdo sintesi di una irradiata navigazione di Michele per oltre un ventennio nel pelago formativo con apporti da ovest a est: a New York con M. Cunningham, poi lungo sodalizio con la magmatica ed estatica C. Carlson e training con maestri zen che lo intridono di un meditato sguardo interiore e di una distaccata metafisica buddista. Ma il suo asse si incentra nella sua unità di coscienza italo-europea – con echi di pittori ferraresi, delle stralunate figure di El Greco, delle gotiche crocifissioni altoatesine e i brividi del sommo Kantor per l’uso simbolico della croce e il pilotaggio magnetico con occhi e mani – sulla capacità di unificazione di più linguaggi nell’unità di espressione coreutica: in armonia di forma. Il duplice seme ecumenico ovest-est sortisce quel suo peculiare stile scultoreo in corpi in movimento che permea le sue creazioni. Per dirci dei segmenti dell’odissea contemporanea di noi fragili: esclusi, rifiutati, hors du nomos, con possibili-impossibili occasioni di sopravvivenza. Ci sbatte sulla scena disossate figure che, implose in una sottile scheletrica androginia – altro crudo segno dell’afasico non individuato homo aeconomicus -, si muovono a scatti con scavati puntuti muscolo facciali, rovesciano il bulbo degli occhi, storcono la testa di sott’insù, articolano gli arti a granchio, quali allarmate metalliche immagini di Cosmé Tura (il cui algido aspetto è temperato dal blocco magico in statue del regista). I geroglifici del quotidiano di Michele sono paradossali, sconcertano, poi “lenta mente” consuoniamo con il suo altro e alto senso della forma compiuta. Forma che è una compatta forza della natura e ci viene addosso come un macigno. Per dirla con Bauman, “queste persone in fuga e in attesa non hanno nient’altro che la propria nuda vita e non riescono mai a sbarazzarsi della tormentosa sensazione che ogni stanziamento sia caduco, indefinito e provvisorio”. Il suo sguardo lungo ci sommerge con i suoi diletti dal profilo intagliato e dai ghigni talora beffardi, in un crescendo sempre più marcato e incisivo nell’intrico di segni-significati. È un sommovimento viscerale, abbatte le difese razionali, lacera i propri orientamenti. Un’iniziazione per noi all’incarnarsi uomini veri e a intravvedere l’invisibile. Con tagliente stringatezza e secchezza di immagini erompe la colma pietas verso gli uomini di rifiuto di Michele, attento a lontananze invisibili, alla poetica indicibilità. Anche noi infine denudati, alleggeriti, beatamente prostrati e spossessati dal percorso-lavacro. In pienezza emotiva balbettiamo un reverente grazie e tendiamo un abbraccio a questi addetti al sacrificio portatori di sacro (novelle vestali?). Tale rigore e maturità hanno conquistato Michele e Antonella e i loro adepti-tutti al massimo di sé e fusi in un solo corpo mistico - perché la danza è per loro una missione con quel senso di abbandono profondo a ciò che deve essere. E il maestro – come tutti i maestri di vita – è legato intimamente sempre a ciò che gli suggerisce quel che lui deve compiere. Col furore del segno il loro determinato cammino diventa sempre irradiante luce per chi li contempla. Fanno della loro vita totale – corpo, mente e cuore – un’opera d’arte. Excelsior!