La coppia, voce del corpo, voce dell’anima
di Francesca Pedroni

Il testo è stato scritto per il programma di sala di Studio per una Medea - anteprima di Medea - presentato al Teatro Comunale di Ferrara.

 

Tutto ciò che ho praticato finora, lo chiamo opera d’amore…
Medea sono adesso, cresciuta è la mia natura
grazie alla sofferenza.
Seneca, Medea

 

Una danza intima, che si rispecchia nell’alterità della coppia, è il segno costante dell’avventura artistica e personale intrapresa agli inizi degli anni Novanta da Michele Abbondanza e Antonella Bertoni. Abbondanza ha alle spalle un’esperienza fondamentale per la coreografia italiana quale la co-fondazione nel 1984 della compagnia Sosta Palmizi, nata dallo scioglimento del Teatro Danza La Fenice di Carolyn Carlson di cui anche ha fatto parte. Anni importanti nei quali il danzatore-coreografo si fa notare da pubblico e critica per il carisma scenico giocato sulla mistura di pregnanza fisica e sensibilità del gesto. Con Antonella Bertoni, interprete dal dinamismo ricco e coinvolgente, Abbondanza si incontra a Parigi, quando, alla fine degli anni Ottanta, terminata l’avventura con la Sosta, torna a ballare con Carlson. Basta riguardarsi gli spettacoli legati a quell’esperienza parigina per accorgersi come già allora Abbondanza e Bertoni siano “coppia” all’interno del gruppo. Appartiene al loro stare insieme sulla scena una qualità di movimento a due voci in cui è tangibile l’accoglienza del corpo dell’uno nell’altro, la consuetudine nel movimento all’ascolto, una dialettica di incontro e scontro tra pensieri e fisicità non esperita solo nella pratica artistica.
E’ nel destino delle cose che Abbondanza e Bertoni si stacchino da Carlson e diano forma a un percorso indipendente nella coreografia e nell’interpretazione. Nasce nel 1991 il loro primo importante spettacolo di coppia: Terramara. Una storia d’amore danzata come impegno quotidiano comune, un sentimento da giocarsi non solo nel tempo segreto degli amanti, ma nel tempo comunitario del lavoro. Tra gerle piene di arance da svuotare e riempire, fascine di paglia da spostare, assolati campi immaginari da percorrere durante i mesi del raccolto. Uno spettacolo teneramente bucolico che, allontanandosi con personalità dal cosmico e visionario lirismo carlsoniano, ma anche dal segno più teatrale delle prime creazioni a firma collettiva della Sosta Palmizi come Il Cortile, comunica il desiderio di ritrovare nella natura i ritmi originari dell’unità tra maschile e femminile. Una danza di sguardi, prese e contatti, in cui la “terramara” del titolo (dal latino “terra mala”, ovvero depositi a cumulo di terra grassa e nerastra, costituito dagli avanzi di vaste stazioni preistoriche) crea l’immagine di una secolare stratificazione di quella natura creatrice (le centinaia di arance rovesciate in scena) da cui anche noi deriviamo e a cui torneremo.
La generosità nostalgica della danza di coppia di Terramara abbandona il rapporto fiducioso con lo spazio esterno nel successivo Pabbaja – abbandono della casa, 1994. Il tema con cui si relaziona la coppia non ha più nulla di naif o di bucolico. “Si può danzare la guerra, la sofferenza, la tragedia? Si può danzare da soli, una passione?” si chiedono Abbondanza e Bertoni in uno spettacolo che al debutto definimmo un canto sul sentimento ucciso. Tutto avviene all’interno di una casa, anzi di una stanza, al centro un grande tavolo nudo. Una superficie sulla quale i due interpreti si appoggiano, si rovesciano, reiterano i gesti con ritmo ossessivo. E’ un racconto di dolore, solitudine, nuclei famigliari spezzati, che si traduce nello stridore tra i gesti esageratamente ampi del busto e delle braccia, e l’impedimento di un movimento che spesso non si scolla dal posto. Un grido silenzioso contro un mondo esterno che fa paura, espresso con una danza costretta nello spazio chiuso di una casa desolante. Un’unità di luogo dove ballare il terrore della perdita, trasformando il tavolo in una pietra tombale, quando l’abbraccio tra i corpi avvinghiati sul piano si allenta, raggelandosi in una scultorea pietà.
Nella differenza di questi due primi spettacoli è già evidente quella che sarà una tematica chiave del lavoro di Abbondanza e Bertoni: l’attenzione al dialogo gestuale di coppia, alla ricerca di una qualità espressiva della relazione che, di creazione in creazione, non esita a mutare registro e codice di movimento. Caratteristica che appartiene anche agli spettacoli allargati ad altri interpreti o ad altri autori. E’ il caso di Spartacus – il dì che più non c’è – del 1995, ritratto ironico e struggente del mondo dei saltimbanchi di strada su coreografia del solo Abbondanza, in cui alla coppia protagonista si aggiunge Maria Tullia Pedrotti. Un gioiello di ironia, accompagnato da musica kletzmer del Rhapsodija Trio, collaboratori storici di Moni Ovadia, in cui la sintonia fabulatoria tra Abbondanza e Bertoni, espressa in una danza tutta esagerazioni ed inciampi, diventa punto di partenza per la costruzione di un trio di personaggi, miracolosamente credibili nella loro ostentata quanto misera grandezza. Ed è il caso di un altro lavoro di successo qual è Romanzo d’infanzia (1997), la coppia nuovamente sola in scena, guidata però per regia e drammaturgia da Letizia Quintavalla e Bruno Stori, quest’ultimo anche autore del testo. Uno spettacolo per adulti e bambini che arriva dritto al cuore e in cui Antonella e Michele si rimettono ancora una volta in gioco. Da soli, interpretano, recitando e danzando, i quattro protagonisti del racconto, i bambini e fratelli Nina e Tommaso e i rispettivi genitori. Il risultato è un lavoro di delicatissima psicologia, in cui Abbondanza e Bertoni danno voce alle paure e alle ribellioni dell’infanzia, alle ansie mal celate del mestiere di madre e di padre, alle difficoltà relazionali e ai sensi di colpa. Con una danza che è tutt’uno con la voce, ordini e preghiere delle differenti parti in causa, in uno sguardo senza veli sul rapporto non sempre risolto tra il nostro mondo di adulti e il come eravamo da piccoli.
Nello stesso 1997 debutta anche Mozart Hotel, spettacolo di gruppo ideato in due versioni, una per la scena al chiuso, l’altra di strada, re-intitolata Mozart Strasse. Un lavoro nel quale la coppia è, anche nel curioso racconto che fa da sostrato alla creazione, guida trascinatrice degli altri cinque interpreti. I temi esplorati sono, Mozart licet, ancora una volta legatissimi alle dinamiche relazionali di coppia. La scelta d’ambiente è un hotel: “luogo di erotismo – spiegano i due coreografi – che stacca l’anima dal suo letargo” e luogo dove misurarsi, anche grazie al confronto importante con la musica di Mozart eseguita nella versione di strada per banda dal vivo, con il “dualismo costantemente presente nella nostra esistenza”. Doppia faccia dell’io, che torna, in altre vesti, come tema significante di Fiaba buia, riflessione fin dal titolo sul significato delle fiabe, che con coraggio affronta argomenti scottanti come la pedofilia e l’incesto, firmata, oltre che con il cantautore Silvano Pantesco, nuovamente con Stori e Quintavalla. Un lavoro, a nostro avviso non pienamente risolto, ma che ha senz’altro lasciato il segno nel percorso dei nostri due artisti rispetto all’analisi delle contraddizioni della personalità e del confronto di esse all’interno di un duo. Relazioni di coppia sono investigate anche in Figli d’Adamo (2000), creazione per l’Aterballetto di Mauro Bigonzetti. Uno spettacolo in cui Abbondanza e Bertoni, coinvolti solo come autori, guidano i danzatori della compagnia emiliana in un percorso non facile, giocato su una fisicità drammatica e istintuale attraverso la quale guardare in faccia il rapporto io/altro da una ulteriore angolazione.
Infine il mito e la tragedia greca. Fonti di ispirazione che fanno da sottotraccia nel 2000 ad Alcesti ed alla presentazione questo dicembre al Comunale di Ferrara di Studio per una Medea, visione in corso d’opera di un lavoro in divenire che approderà alla sua forma definitiva nel 2004. Entrambe le creazioni, ispirate liberamente a figure della mitologia greca, fanno parte del progetto Ho male all’altro, riflessione sul tema del sacrificio all’interno della coppia. Spiegano i due autori: “Ho male all’altro, ovvero: io sono te, e con te mi identifico a tal punto che il tuo dolore è il mio dolore. La coppia è la depositaria principale di questo duopolio. Il sacrificio per amore è quindi il filo d’Arianna: dal sacrificio di sé (Alcesti) al sacrificio di altri da sé (Medea), ma altri in quanto figli e quindi prosecuzione del corpo della coppia”. Tema tragico e sacrale, quello del sacrificio, legato spesso al dispiegamento dell’Eros, suggerisce Georges Bataille:

Sacro!
In anticipo, le sillabe di questa parola sono piene di angoscia, cariche del peso della morte nel sacrificio…
L’intera nostra vita è carica di morte…
Ma, in me, la morte definitiva ha il senso di uno strana vittoria. Essa mi illumina del suo bagliore, apre in me il riso infinitamente gioioso: quello della scomparsa!…

Se non mi fossi, in queste poche frasi, rinchiuso nell’istante in cui la morte distrugge l’essere, potrei forse parlare di quella “piccola morte”, in cui, senza veramente morire, mi accascerei nel sentimento di un trionfo” .

Sacrificio, sacro ed Eros presenti nelle tragedie Alcesti e Medea. E’ per causa dell’amore che Alcesti, moglie di Admeto, salva il marito con la propria morte, sacrificandosi in virtù di un patto tra Apollo e le Moire. E di quanto Eros possa essere una spinta ineluttabile al sacrificio ne è ben conscia Medea che in Euripide dichiara: “Che sciagura per gli uomini l’amore”… Colpevole di averle fatto abbandonare la sua terra di Colchide (Caucaso) per seguire Giasone nell’estranea Corinto; colpevole per non averle permesso di accettare il tradimento del marito, promesso sposo a Glauce, figlia di Creonte, re di Corinto; colpevole di averla spinta, furiosa, all’omicidio dei figli suoi e di Giasone. “Medea – precisano Abbondanza e Bertoni – offrendo i corpi senza vita dei suoi figli al marito fedifrago, sceglie volutamente la strada istintiva e diabolica, rivelando la ferita mortale là dove batte il suo cuore erotico”. Medea, donna non compresa, segretamente invidiata dal popolo di Corinto, come si evince anche nell’avvincente rivisitazione contemporanea del mito di Christa Wolf, figura femminile che incarna in certi aspetti l’archetipo della Donna Selvaggia: colei che “porta il medicamento per tutto. Porta storie e sogni e parole e canzoni e segni e simboli. E’ nel contempo veicolo e destinazione ”.
Ma quale qualità di danza scegliere per riesaminare la relazione a due in rapporto al mito? In Alcesti Abbondanza e Bertoni optano per una danza marionettistica che corrisponde alla comunicazione di una coppia, destinata a soccombere alla necessità degli eventi, l’anánke dei greci. Una qualità straniata e meccanica del gesto, accentuata dalla partitura densa nata dalla rielaborazione al computer dell’Alcesti di Gluck a firma di Mauro Casappa. Una danza che, ancora una volta, esplora il corpo in modo nuovo. Poche le rotondità del movimento, spezzate dalla rigidità di un gesto di cui non si è padroni, e tanti i simboli: dall’Ade, personificata dalla terza interprete dello spettacolo (Veronica Melis o Elisa Cuppini), ai nastri neri che volteggiano sull’abito nuziale di Alcesti e ricordano le ciocche di capelli tagliate dalle Moire a chi è destinato alla morte.
Studio per una Medea è un lavoro, ribadiamo, in corso d’opera. In accordo con Abbondanza e Bertoni abbiamo ritenuto non fosse il caso di anticipare nel dettaglio le scelte di montaggio di questo studio in divenire, musiche nuovamente curate da Mauro Casappa, luci e scene di Lucio Diana, collaboratore storico della coppia dai tempi di Terramara.. Preferiamo lasciare a stasera la scoperta della struttura con cui gli autori avranno deciso di raccontare la loro visione dell’incontro-scontro tra le anime e i corpi di Medea e Giasone. Ci preme invece richiamare l’attenzione del pubblico su alcune note di intento che emergono dagli scritti e dalle parole di Abbondanza e Bertoni. La ricerca di una qualità espressiva “deformata” nel gesto e nei tempi dello spettacolo. Una qualità che tende alla creazione di una danza “da fantoccio”, che prende distanza dall’io e dall’autobiografismo. Un ritorno alle suggestioni di von Kleist e Craig sulla “trasparenza” dell’attore-marionetta, già presente in Alcesti? In parte, sì, a giudicare dal “vuoto dell’ego” di cui parlano i due autori nel breve testo poetico sullo Studio.

Presepio di corpi e oggetti contratti
Deformazioni per partiture di movimento non conformi
Contraffazioni, smorfie dell’immagine per rendere più evidente l’essenziale


Georges Bataille, Le Lacrime di Eros, Bollati Boringhieri, Torino, 1995, p. 46; edizione originale, Les Larmes d’Eros, Societè Nouvelles des Editions Pauvert, Parigi, 1961.
Clarissa Pinkola Estés, Donne che corrono coi lupi – Il mito della Donna Selvaggia, Frassinelli, Piacenza, 2003, XXXIX edizione, pag. 11; edizione originale Women Who Run with the Wolves, 1992.

Ciò che è alterato si lascia meglio abitare
Raggrinzito allo scatto comportamentale dell’umano non umano (fantoccio), il
vuoto dell’ego mostra il vero volto
Negazione di ogni grazia e baloccamento
Anelito verso ogni minima parvenza e movenza di vita in cui si agitano forme
Siccome non esiste dolore più grande dell’amore c’è di che ridere, ma è anche
una tragedia intorno al mito perché è umano.

Abbondanza e Bertoni puntano per la loro Medea al ritrovamento di un gesto libero dalla mimesi stretta del quotidiano, che indaghi quello stato pre-logico, non razionale, a cui si legano le azioni di Medea. Un’ipotesi nella quale la trama è presente come meraviglioso pretesto per esplorare, in compagnia del mito, il mistero dell’uomo e quei “mille raggi invisibili” che Eros tende, ieri come oggi, tra i corpi e le anime degli amanti. In risposta a una visione del nesso tra danza e racconto, che questa dichiarazione di poetica a firma della coppia chiarisce:

“Contrapponiamo l’analogia-metafora all’illustrazione, più per associazione che descrizione. Vaghiamo nella penombra delle forme e dei movimenti che ci circondano, cercando nel riprodurli quella vibrazione “vivente” che in genere nascondono: forme che gli esseri e le cose non fanno normalmente apparire. Così ogni creazione può diventare il tentativo di far cristallizzare attorno a una passione quelle sagome intraviste. Diamo forma alle visioni che ci agitano come qualcosa di urgente da dire. La coscienza di una direzione, ammesso che ce ne sia solo una, ci porta a credere di avvicinarci sempre più a una “sintesi”, con l’attenzione che ciò non si traduca solo in sottrazione, ma anche in esposizione dello stretto necessario. Setacciare il territorio fisico, del cuore e del pensiero, vedere e far vedere le azioni che tracciano i percorsi del vivere”


 

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